L’uomo e l’artista

IL PITTORE GIUSEPPE ZANON DI TESERO – di Paolo Deflorian
(1926-2006)

 

L’uomo e l’artista

 Tra gli artisti trentini che operarono dalla metà del Novecento ai primi anni di questo secolo XXI si incontra il teserano Giuseppe Zanon, una figura forse poco conosciuta, ma di notevole spessore per la qualità e la consistenza della produzione pittorica ed anche per il contributo dato alla conoscenza ed alla valorizzazione dell’ambiente naturale attraverso i suoi quadri e la sua attività di illustratore nel campo della divulgazione scientifica. Se poi si osserva che fu pittore autodidatta e dovette aprirsi da solo una strada non facile, riuscendo tuttavia a raggiungere livelli di tutto rilievo, la misura del suo talento e del suo merito appare ancora maggiore.

Nato nella splendida valle di Fiemme, quando la società locale era ancora contadina nell’economia e nei costumi, Giuseppe Zanon fin da bambino, come si dirà meglio più avanti, fu fortemente attratto dall’inesauribile libro della natura e per tutta la vita non si stancò mai di leggerlo con passione, scoprendovi ogni volta cose nuove, belle, interessanti, che appagavano l’occhio, nutrivano ed aprivano la mente e rispondevano alla sua insaziabile curiosità. La natura divenne dunque per lui una sorgente generosa di felicità e, come accade solitamente all’uomo, egli sentì il desiderio e quasi il bisogno di fissare il meglio di quanto aveva visto e provato per poterlo ritrovare in seguito e perché altri ne potessero godere a loro volta.

Ma per fare tutto questo occorreva disporre di un linguaggio adatto e quello che trovò più congeniale fu la pittura, verso la quale aveva una chiara predisposizione naturale.

In mancanza di una scuola, si lasciò guidare dall’intuito e facendo tesoro degli insegnamenti che gli derivavano dall’osservazione paziente dell’ambiente circostante, passo dopo passo raggiunse una piena padronanza tecnica della pittura a tempera, che considerava maggiormente adatta alle proprie esigenze ed al proprio gusto, e giunse ad esprimersi in uno stile inconfondibile e di straordinaria efficacia.

Nella sua formazione ebbe un posto importante anche lo studio dei maestri del passato, di cui analizzava le opere con l’occhio critico dell’intenditore. I preferiti, per evidenti affinità elettive, tanto sotto l’aspetto contenutistico quanto sotto l’aspetto formale, come si può facilmente capire osservando i suoi quadri, erano i pittori italiani dell’Ottocento che ruotavano attorno al movimento dei Macchiaioli, tra cui Giovanni Fattori, Silvestro Lega e Telemaco Signorini, ma poi anche, e in misura non inferiore, Filippo Palizzi, i veristi lombardi, come Girolamo Induno e Mosè Bianchi, e ancora Giovanni Segantini, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Angelo Morbelli e, tra gli stranieri, il francese Jean-François Millet.

Conosceva l’arte contemporanea nei suoi diversi orientamenti, ma il suo linguaggio gli era per buona parte estraneo, come gli era estraneo l’ambiente urbano da cui essa trae in prevalenza ispirazione ed alimento.

Per lui il mondo vero, con il quale l’uomo doveva cercare di riconciliarsi e di vivere in armonia per sentirsi intimamente appagato, era quello naturale, fatto di boschi, di acque, di piante, di montagne, di cielo e di animali, da osservare in silenzio con pazienza e da godere in tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi cambiamenti e in tutte le innumerevoli forme di vita che lo animano. Ecco allora che la sua rappresentazione non poteva essere sommaria e puramente allusiva, ma, seguendo il principio della verosimiglianza, doveva rispettare la realtà ed esaltarne la bellezza attraverso un complesso e delicato processo di rigenerazione.

La stessa cosa valeva anche quando si trattava di rappresentare l’ambiente umano, visto comunque e sempre all’interno di quello naturale e ad esso strettamente legato. Così il pittore riandava con la memoria ai luoghi a lui più familiari, tante volte osservati negli anni dell’infanzia e della giovinezza, per raffigurare l’interno di una baita di montagna o la cucina o la stanza di soggiorno di una casa, dove la famiglia si riuniva ed accoglieva gli ospiti. E la ricostruzione era fedele: impiantito e pareti di legno; un mobilio essenziale, pur esso di solido legno; il fuoco che illumina e riscalda o la luce che irrompe dalla finestra; la linda tovaglia sul tavolo; una scodella o una brocca di maiolica dalla forma armoniosa; un vaso di fiori sul balcone o sulla cassapanca. Ad animare l’ambiente una varietà di figure con l’aspetto ed il portamento suggeriti da persone realmente vissute e tante volte osservate in precedenza: bimbi soliti a correre ed a giocare per le strade, liberi e felici, incuranti del loro abbigliamento approssimato; donne di bellezza nativa con i lunghi capelli raccolti sul capo e la sobria veste di tutti i giorni; uomini di ritorno dalla stalla o dalla caccia con il cappello in testa, i calzoni di fustagno e le grosse scarpe impolverate; vecchi dal volto rugoso e dalla folta barba incolta, assorti nei loro pensieri. Ed ancora  un gatto, un cane accucciato sotto il tavolo e magari il lucherino o il cardellino nella gabbietta sopra la credenza.

A chi non ha conosciuto Giuseppe Zanon queste scene possono apparire di pura maniera. Chi l’ha conosciuto vi trova rappresentati gli aspetti della realtà e della vita che egli preferiva e che, a suo modo di vedere, meritavano di essere salvaguardati e valorizzati: la semplicità del vivere, la naturalezza dei gesti e la spontaneità dei rapporti, l’essenzialità dei beni materiali, la libertà dai condizionamenti delle mode e l’indipendenza del pensiero. Tutte cose che egli viveva e difendeva, non per posa, ma per radicato convincimento.

Piuttosto minuto nel fisico, ultimamente un po’ curvo e avvizzito, l’occhio sempre vivo e lo sguardo spesso assente, la sigaretta fra le dita, anche lui, come gli uomini dei suoi quadri indossava immancabilmente un cappello scuro, una camicia pesante dalle tinte smorzate, un maglione fatto a mano, i soliti pantaloni, non di rado macchiati di colore, scarpe sempre dello stesso tipo, adatte per ogni luogo e per ogni tempo, insensibile ai continui inviti delle donne di casa ad una maggiore cura della persona.

Amava il dialogo ed esprimeva in modo schietto e a volte ruvido le proprie opinioni. Naturalmente i contenuti preferiti erano la pittura, la natura, gli animali, la caccia e la pesca, l’astronomia, ma affrontava anche molti altri argomenti con competenza, acume e grande autonomia di giudizio. Tra questi la musica classica e quella operistica, di cui era un attento ed assiduo ascoltatore.

Seguiva con interesse i progressi della scienza e della tecnica ed apprezzava i vantaggi che da essi derivavano al vivere quotidiano, ma era spietato nel condannarne gli abusi a danno dell’uomo e dell’ambiente. Rilevava con disappunto che il senso ed il gusto della misura, delle proporzioni e dell’armonia si stava progressivamente affievolendo un po’ in tutti i campi, cosa che imputava in buona parte all’allontanamento della società dall’osservazione diretta e dallo studio della natura e delle leggi che la governano. E proprio nella concezione della natura come dono meraviglioso di un Dio creatore che si rivela all’uomo attraverso di essa, senza che quest’ultimo debba ricorrere necessariamente ad altre mediazioni, si coglie la dimensione religiosa di Bepi Zanon.

Se gli aspetti finora considerati di questo singolare personaggio appaiono abbastanza coerenti fra loro, ve n’è uno, e non secondario, che a prima vista può risultare contraddittorio e per certi versi scandaloso: la passione per la caccia. Di fatto era per lui un istinto ancestrale, consolidato dalla forte tradizione familiare. Oggi nel suo caso appare una “felice colpa”, dal momento che lo ha portato ad indagare senza sosta i segreti della vita animale e gli ha fornito in continuazione contenuti e stimoli per la sua straordinario produzione pittorica.

L’interesse e l’amore per la caccia durò per tutta la vita e sebbene negli ultimi anni non ci andasse più e non approvasse l’uso di armi sempre più efficienti che semplificavano oltre misura il ruolo del cacciatore, all’approssimarsi dell’autunno sentiva forte, quanto i suoi cani, il richiamo del bosco.

Non a caso la maggior parte dei suoi quadri di soggetto naturalistico presenta paesaggi autunnali: erano quelli più conosciuti e di maggiore forza evocativa, oltre a garantire una buona resa pittorica grazie alla magia dei colori e della luce.

La preferenza di Bepi Zanon tra la stagioni andava tuttavia alla primavera ed all’estate. Di esse apprezzava la luminosità e il calore, la libertà di muoversi all’aperto e l’energia vitale che avvertiva in ogni creatura e lo contagiava fin nel profondo. L’autunno e l’inverno non mancavano di fascino ed erano artisticamente suggestivi, ma gli trasmettevano una certa malinconia ed egli li trascorreva nell’attesa impaziente del risveglio della natura.

Vivendo in questa dimensione, governata dal succedersi delle stagioni più che dal calendario civile e quasi  estranea alla vita sociale, non era per nulla dominato dal bisogno di essere ed ancora meno di apparire al passo con i tempi e non sentiva il richiamo della notorietà. Gli bastava di non dover sottostare a convenzioni troppo vincolanti e di poter fare bene il proprio mestiere in libertà.

Ebbe di volta in volta degli allievi, ai quali, in quanto autodidatta, non poteva impartire un insegnamento di tipo accademico. Li faceva piuttosto partecipi della sua visione della realtà e dell’arte, trasmetteva loro il frutto della sua esperienza sotto l’aspetto tecnico, assistendoli nelle esercitazioni, e li aiutava ad individuare ed a valorizzare le loro attitudini attraverso il dialogo in un clima del tutto informale.

Per dipingere aveva bisogno di tranquillità e concentrazione. Così si alzava quotidianamente molto prima dell’alba e si ritirava nel suo studio, dove attraverso un lavoro paziente e minuzioso dava forma e vita alle sue visioni.

Quando poneva mano ad un quadro, l’idea iniziale, attraverso un lungo processo di elaborazione si era già tradotta in un modello ben definito che il pittore aveva chiaro nella mente. Sul pannello di legno compensato compariva l’abbozzo, tracciato con sicurezza secondo regole fisse e inderogabili, dettate da precise esigenze tecniche ed estetiche. Seguivano poi le prime chiazze di colore, e il quadro prendeva forma e via via si animava, si illuminava, si definiva. Pennellata dopo pennellata, si arricchiva di mille particolari, armonizzati fra loro per dare corpo all’insieme. Il soggetto assumeva rilievo e si mostrava in tutta la sua bellezza, quella naturale, tante volte osservata ed ammirata, fatta di forme, colori, movenze, atteggiamenti fedelmente ricostruiti e sapientemente elaborati. Sia che si trattasse di quadri d’esterno che di quadri d’interno, l’ambiente, nato con il soggetto, finiva per avvolgerlo ed ecco che l’occhio, favorito e quasi guidato da una luminosità diffusa che smorzava i contrasti e raggiungeva gli angoli più reconditi, poteva abbracciare l’intera scena e godere della sua visione globale senza incontrare elementi di disturbo e poi vagare alla ricerca dei particolari, tutti da gustare, tanto erano veri.

Questo processo si è ripetuto in continuazione nel corso degli anni ed ogni volta ha prodotto un’opera nuova ed unica che parla agli occhi ed al cuore con un linguaggio raffinato, ma accessibile a tutti, gradevole al profano e ricco d’interesse per l’intenditore.


La vita

Giuseppe Zanon, più noto con il nome di Bepi da Fìa, dalla località al margine nord-orientale del paese dove trascorse la maggior parte della vita, nacque a Tesero il 14 marzo 1926.

Era il secondogenito di una famiglia di modeste condizioni, che negli anni seguenti crebbe fino a contare sei figli.
Il padre Ernesto “Pèterla” all’epoca era magazziniere presso il deposito del SAIT a Cavalese. La madre Dorotea Zeni “Mòla” badava alla casa, ai campi ed alla stalla, come avveniva in gran parte delle famiglie del paese.

Giuseppe dimostrò presto di possedere un grande spirito di osservazione ed un interesse innato per l’ambiente naturale che lo circondava. E da bambino trascorreva le sue giornate nei prati, nei boschi, lungo i rivi e dentro gli stagni del fondovalle, pronto ad individuare, osservare ed anche a catturare, quando gli riusciva, qualsiasi creatura che si muovesse, in acqua, in aria e sul terreno. Se ne stava a lungo davanti ai muri a secco che fiancheggiavano le stradine di campagna ad aspettare la lucertola o il ramarro o la serpe che presto o tardi – lo sapeva bene – avrebbe fatto capolino tra i sassi. Quando, poi, tornava a casa, non di rado estraeva dalla tasca, magari durante il pasto, una cavalletta, una rana o un orbettino per mostrarlo ai genitori ed ai fratelli, i quali non sempre apprezzavano il suo gesto.

Molti dei segreti della natura li scoprì da solo attraverso le sue infaticabili ricerche sul campo e molti ne imparò alla scuola del padre, il quale, cacciatore e pescatore per vocazione, trasmise ai figli un grande amore per queste pratiche ed una straordinaria capacità di vedere e di leggere ogni manifestazione che riguardasse la fauna locale ed il suo ambiente.

Quando venne il tempo della scuola, Bepi Zanon, che era dotato di intelligenza pronta e di ottima memoria, non incontrò difficoltà nell’apprendimento. Soffrì invece la noia delle lunghe ore di permanenza al chiuso, che egli combatteva evadendo dall’aula con la mente per inseguire le sue visioni. Inoltre, mancino com’era, subì con fastidio l’obbligo di scrivere con la destra, raggiungendo rapidamente, in compenso, un sicuro controllo di entrambe le mani e diventando un ottimo calligrafo.

Evidenziò precocemente un forte interesse per la pittura ed a questo proposito da adulto ricordava d’aver seguito con curiosità, a soli otto anni, la decorazione della chiesa parrocchiale da poco ampliata e l’esecuzione del grande trittico su tela per l’abside centrale ad opera del veneziano Duilio Corompai.

Negli ultimi anni delle elementari e nella scuola di avviamento professionale la straordinaria bravura di Bepi Zanon nel disegno e nell’uso del colore non passò inosservata e fu valorizzata in particolare dai maestri Tullio e Serafino Trettel. Al riguardo i compagni di classe ricordano ancora i disegni di Bepi Zanon esposti alle pareti dell’aula ad illustrazione di alcuni episodi dei Promessi Sposi letti dal maestro Tullio Trettel durante le lezioni di italiano. Dal canto suo il maestro Serafino Trettel segnalò al direttore didattico Agostino Molinari la promettente inclinazione dell’alunno verso le arti figurative ed insieme cercarono di trovare per il ragazzo un percorso formativo che gli consentisse di mettere a frutto il suo talento.

Purtroppo la scomparsa del padre, morto di malattia a 52 anni, quando Bepi Zanon ne aveva tredici, impedì la realizzazione del progetto e da allora il ragazzo dovette adattarsi ai lavori più disparati per concorrere al fabbisogno della famiglia.

Dal dicembre del 1941 al marzo del 1943 fu a Bolzano, dove lavorò come apprendista magazziniere in un negozio di sementi e dove, approfittando della disponibilità dei padroni, frequentò corsi serali di cultura generale.

Tornato in valle, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, fu assunto alla Famiglia Cooperativa di  Cavalese e vi rimase dal maggio del 1943 al gennaio del 1945. In questo periodo gli capitò di prestare servizio anche presso la filiale di Carano e qui ebbe l’opportunità di vedere talvolta al lavoro il pittore Camillo Rasmo, di cui conservò un lucido ricordo e dalle cui opere, soprattutto quelle di contenuto fiabesco, trasse in seguito qualche spunto.

Nel luglio del 1944, quando il Trentino faceva ormai parte della Zona di Operazioni delle Prealpi sotto il diretto controllo dei Tedeschi, Bepi Zanon, che aveva compiuto da poco diciott’anni, fu dichiarato abile al servizio di guerra, da prestare a chiamata nel Corpo di Sicurezza Trentino. Giunto però il tempo dell’arruolamento, decise di darsi alla macchia e, potendo contare sulla perfetta conoscenza dei luoghi e sull’aiuto dei parenti, visse nascosto per qualche mese nei boschi sovrastanti l’abitato di Tesero.

Terminata finalmente la guerra, tornò a lavorare a Cavalese, questa volta in un negozio di articoli per la pittura artistica ed edile, dove, oltre a colori e pennelli, si vendevano cornici e stampe. Il proprietario, Giovanni Vanzo, si dedicava anche alla pittura, all’intaglio ed alla decorazione e talvolta eseguiva lavori di serie, come gli sfondi per i presepi domestici, ed in questi casi si avvaleva dell’aiuto del giovane Bepi Zanon, il quale offriva volentieri la sua collaborazione in questa attività aggiuntiva di retrobottega,  che gli era certamente più congeniale rispetto al lavoro di commesso.

Raggiunta la maggiore età, fu chiamato a prestare servizio militare nell’esercito italiano come alpino marconista. Di quest’ultima esperienza ricordava più tardi due episodi che gli erano rimasti impressi: il divertente lavoro di decorazione di alcune sale della caserma di Montorio Veronese, eseguito nello stile del passato regime fascista, e una trasferta a Roma, dove nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna vide direttamente per la prima volta la grande tela di Giovanni Segantini nota con il titolo “Alla stanga”.

Tornato a Tesero, svolse lavori stagionali nel bosco ed in malga senza mai trascurare la pratica del disegno. Gli amici di allora raccontano in proposito che a Bepi bastavano un tizzone tolto dal focolare ed una superficie sufficientemente liscia di qualsiasi natura per ritrarre un paesaggio o una figura d’uomo o d’animale, fissandone rapidamente i lineamenti essenziali e le pose caratteristiche.

Cominciò pure a dipingere su commissione quadri di piccole dimensioni aventi il più delle volte per soggetto nature morte legate alla caccia e fece per diversi anni il decoratore di oggetti ornamentali in legno per la ditta Borelli di Cavalese, usando soprattutto la tecnica della pirografia su legno. L’attività di pittore, infatti, se da un lato rispondeva alla sua vera vocazione, dall’altro non gli bastava da sola per vivere e non gli dava sufficienti garanzie per il futuro.

Fu questa una tappa forse poco produttiva sotto l’aspetto artistico, ma non priva di significative esperienze di vita. Bepi Zanon alleviava infatti il peso del monotono lavoro di decoratore con lunghe camminate nel bosco, con la caccia e la pesca, con le visite al laboratorio del fratello Giovanni, che faceva l’imbalsamatore di animali, con l’osservazione notturna del cielo, con la consultazione di libri d’arte, con letture di argomento naturalistico e storico, con conversazioni, spesso animate, un po’ con tutti, con interminabili partite a scacchi in compagnia di Giuseppe Anders, il poliedrico artista che stava a Cavalese, ma era abituale frequentatore dell’allora Bar Roma di Tesero.
Indipendente ed anticonformista com’era, Bepi Zanon non partecipava volentieri alla vita associativa del paese, ma, quando la compagnia filodrammatica locale gli chiedeva di eseguire lo scenario per uno spettacolo teatrale, non si tirava indietro, anzi vi metteva  tutta la sua inventiva e tutta la sua abilità, con risultati sempre di rilievo. E si divertiva assai, facendo il truccatore, nell’evidenziare i tratti caricaturali degli attori che gli capitavano sotto mano, senza tenere troppo in considerazione il ruolo che essi avrebbero poi sostenuto sulla scena.
Infatti la tendenza a cogliere il lato ameno delle cose e a non dare eccessiva importanza all’operato proprio ed altrui, costituiva un elemento non trascurabile della sua personalità.

Egli era anche un attento osservatore delle persone che incontrava e di talune fissava con precisione nella memoria non solo la fisionomia, la mimica facciale e gestuale, il modo di vestire e di muoversi, ma anche gli aspetti caratteriali che trasparivano dalla parlata e dal comportamento. Gli capitava poi spesso di ispirarsi nei suoi studi a queste figure di cui conservava nitido il ricordo.
Nel gennaio del 1957 Bepi Zanon si sposò con Valeria Deflorian, di Tesero. Da lei nell’arco di pochi anni ebbe diversi figli, di cui sono rimasti in vita Paola, le gemelline Miriam e Renata ed Ernesto.

La nuova situazione in cui venne a trovarsi lo arricchì, e non poco, sul piano esistenziale, ma non provocò cambiamenti sostanziali nel suo stile di vita e di lavoro.

Pur continuando nell’attività di decoratore, sempre più spesso si dedicava alla pittura di quadri di maggiori dimensioni rispetto al passato, eseguiti come sempre a tempera su pannelli di legno compensato, ma a pennellate più fitte e sottili che animavano soggetti naturalistici di maggior respiro, pieni di luce e di colore. I dipinti erano assai apprezzati e il numero dei committenti, grazie anche alle migliorate condizioni economiche generali, cresceva.

Partecipò a varie mostre collettive in ambito locale e regionale e tra il 1965 e il 1967 collaborò con la rivista “Diana”, sulla quale furono riprodotti diversi suoi quadri e numerosi disegni.

In questo periodo Bepi Zanon conobbe Candido Degiampietro di Cavalese, maestro di scuola e autore di pregevoli studi sulla Magnifica Comunità Generale di Fiemme e sulla storia e le tradizioni locali. Oltre che grande ammiratore delle sue opere il maestro Candido era un cacciatore. Questa comune passione, unita ad altri comuni interessi ed alla reciproca simpatia, che derivava, tra l’altro, dal modo arguto e finemente ironico di comunicare, proprio di entrambi, fece sì che i due diventassero in breve grandi amici e lo rimanessero per tutta la vita. E fu proprio il maestro Candido Degiampietro che verso la fine degli Anni Sessanta indusse l’amico Bepi ad abbandonare il lavoro di decoratore e a dedicarsi completamente all’attività di pittore.

Ebbe così inizio la fase più felice e più feconda della vita dell’artista.

Dipingere gli diventava di volta in volta più agevole e più piacevole, sebbene i lavori che gli venivano ordinati fossero impegnativi per l’ampiezza delle superfici da organizzare, per le difficoltà che egli incontrava sovente nel tentativo di conciliare le preferenze espresse dal committente con le proprie e con le regole della pittura ed anche per la costante spinta interiore all’affinamento della tecnica.

Come si è già detto, preferiva i quadri di soggetto naturalistico, ed in particolare quelli che si ispiravano all’ambiente ed alla fauna locale, di cui aveva vasta e sicura conoscenza diretta, ma gli piacevano anche le nature morte. In qualche occasione affrontò scene di interni con figure umane e, per puro divertimento personale o a scopo di studio, mise mano anche ad opere di fantasia, ma sempre di immediata lettura e con precisi richiami al concreto dell’esperienza quotidiana di chi vive a stretto contatto con la natura.

Nel 1971, cedendo alle insistenze di alcuni amici, allestì la prima mostra personale a Lumezzane, in provincia di Brescia. Ad essa fece seguito, alla fine dello stesso anno, un’altra personale a Ronzone, nell’alta Val di Non, che si ripeté con successo nel medesimo luogo a breve distanza di tempo.

Pochi anni dopo Bepi Zanon poté coronare uno dei sogni della sua vita: una piccola casa di sua proprietà a Fia, sul fianco del Montebello, con un boschetto ed i prati alle spalle, di fianco l’orto e di fronte un panorama amplissimo che abbracciava senza ostacoli tutto il paese, la valle dell’Avisio ben oltre Cavalese, la catena del Lagorai e sullo sfondo le Dolomiti di Brenta. Dal giorno in cui poté mettere piede nella nuova casa non si stancò mai di dirsi fortunato e la curò con amore, impreziosendola nel tempo con una ricca collezione di quadri studiati apposta per renderla più calda ed accogliente.

E altri furono i sogni che poté realizzare in quegli anni. Tra questi la possibilità di dipingere con grande libertà, seguendo la propria ispirazione, dal momento che non doveva più assecondare di necessità i gusti e le preferenze degli acquirenti, e la visita di mostre e pinacoteche, soprattutto a Milano e in Lombardia, le quali gli permisero di ammirare e di studiare direttamente i capolavori dei pittori preferiti.

Tra gli amici, con i quali trascorreva lunghe ore discutendo di svariati argomenti e inevitabilmente di pittura, c’erano due validi artisti locali: Giovanni Battista Daprà, detto “Tisti”, di Molina di Fiemme e Agnese Ximenes, “la Romanina”, donna estrosa e pittrice di talento, nata in Veneto da famiglia di alta cultura, formatasi a Bologna e divenuta in seguito fiemmese per lunga e stabile permanenza.

Bepi Zanon ebbe anche la fortuna di conoscere e di frequentare il grande pittore di Villa Lagarina Attilio Lasta, che egli stimava moltissimo per la sua umanità e per la qualità delle sue opere ed in particolare delle sue nature morte.

Altro incontro significativo e fecondo fu quello con il naturalista Sergio Abram, da cui prese avvio un’intensa collaborazione nel campo della divulgazione scientifica.

Bepi Zanon, come s’è detto, era un grande conoscitore della fauna locale e per quanto riguardava gli uccelli era uno specialista. Ecco dunque che Sergio Abram, a sua volta ornitologo affermato, chiese ed ottenne da lui l’esecuzione di una nutrita serie di disegni a pastello aventi per soggetto uccelli di numerose specie, dallo scricciolo all’urogallo, per l’illustrazione di due volumi che furono molto apprezzati ed ebbero ampia diffusione: “Uccelli: nidi artificiali e mangiatoie” il primo, scritto insieme a Carlo Frapporti, e “Gallo cedrone” il secondo. Per la fedeltà e per l’efficacia descrittiva questi piccoli “ritratti” richiamarono l’attenzione degli esperti del settore, in Italia e all’estero, e procurarono all’autore un posto di rilievo tra i pittori naturalisti. A questi lavori fecero seguito altri disegni per articoli e inserti di giornale e per pubblicazioni a carattere didattico.

Inoltre, ancora per interessamento di Sergio Abram, fu affidata a Bepi Zanon la realizzazione di alcuni grandi diorami per il Museo Tridentino di Scienze Naturali, raffiguranti i più rappresentativi animali selvatici della regione nel loro ambiente.
Nel 1989, dopo una lunghissima attesa, l’artista realizzò la sua prima personale a Tesero, e fu un successo. Ricca di una cinquantina di quadri accuratamente scelti ed attentamente distribuiti nelle sale della Scuola Elementare, fu visitata da un grandissimo numero di persone, venute anche da lontano per ammirare le sue opere, ed ebbe notevole risonanza e vasti consensi.

Negli anni seguenti Bepi Zanon continuò nel lavoro, portando avanti la sua ricerca sulla luce che, pur essendo già un elemento di pregio dei suoi quadri, doveva risultare, a suo giudizio, ancora più diffusa, ancora più vera. E si dedicò con maggiore convinzione al ritratto, al quale prima di allora si era accostato soltanto occasionalmente.

Ma intanto con l’avanzare dell’età – si stava avvicinando ai settant’anni – la vista gli si annebbiava a poco a poco creandogli notevoli problemi, al punto che, dopo vari rinvii, decise di farsi operare agli occhi. La visione tornò limpida e chiara e gli parve di ringiovanire, tanto che riprese a dipingere con fervore.

Di questo singolare pittore che se ne stava appartato in un piccolo paese del Trentino, ma faceva parlare di sé con ammirazione ovunque giungessero le sue opere, si interessarono vari periodici ad orientamento naturalistico, tra i quali la rivista “Airone montagna” che nel numero di novembre del 1995 gli dedicò un ampio e ricco servizio dal titolo “Un pittore in Val di Fiemme. La tavolozza della Natura” con testo di Cesare Della Pietà e foto di Vittorio Giannella.

Due mesi più tardi uscì un volumetto di Ferruccio Bravi e Tarcisio Gilmozzi dal titolo “Parole d’oro di Tesero, Fiemme e «föravìa»” con numerose illustrazioni tratte dalle tempere di Bepi Zanon e accompagnate in parte da felici osservazioni di Bravi sull’autore, sui contenuti e sullo stile.

Nel 1996, con l’aiuto dei figli, il pittore allestì un’altra importante e fortunata mostra personale a Tesero, questa volta presso la Scuola Alberghiera, ed un’altra ancora nella stessa sede nel 1999.

Due anni dopo fu invitato ad esporre i suoi quadri a Coredo in Val di Non in occasione dell’inaugurazione del nuovo municipio e a breve distanza di tempo tornò in Val di Non per una personale a Cles.

Dopo di allora, a causa dei problemi di vista che tornavano a infastidirlo e di altri malanni fisici, Bepi Zanon ridusse via via l’attività di pittore, finché nel 2004 l’abbandonò del tutto.

Ma non si chiuse nell’isolamento e continuò a sfogliare con curiosità, spesso attraverso gli occhi ed i racconti dei figli, il grande libro della natura da cui aveva attinto a piene mani fin dall’infanzia. Quando era stagione ed il tempo lo permetteva, si recava nel campo poco distante, che aveva acquistato qualche anno prima e che aveva trasformato in orto e frutteto. Qui trascorreva gran parte della sua giornata prendendosi cura delle coltivazioni, di cui andava fiero, e soprattutto se ne stava lì ad osservare con l’attenzione e lo stupore di sempre il miracolo della vita che si rinnovava e ad ammirare e gustare ancora una volta la perfezione di una foglia, il colore di un fiore, la fragranza di un frutto, il calore del sole, le voci della campagna. Al ritorno poteva godere di altre gradevoli manifestazioni del mondo che lo circondava e dava senso e valore alla sua esistenza: la presenza della moglie Valeria, cara e fidata compagna di viaggio da tanti anni; quella dei figli, che nutrivano per lui rispetto e grande devozione e, pur avendo messo su casa a loro volta, gli erano sempre vicini; quella dei nipoti, che ricambiavano con altrettanto affetto il suo amore profondo per loro; e ancora quella dei suoi cani e dei suoi gatti, con i quali dialogava in continuazione con il codice segreto di chi conosce bene gli animali.

In questo ambiente tranquillo e rassicurante, che riusciva ad alleviare i suoi mali, mosse serenamente gli ultimi passi verso il traguardo finale.

Morì nella sua casa la mattina del 6 ottobre 2006 all’età di ottant’anni.

Ora Bepi Zanon non c’è più, ma rimangono i suoi quadri, sparsi per l’Europa e per il mondo.

In qualunque luogo essi si trovino, parlano ancora e parleranno a lungo di natura e di un eccellente pittore teserano che di essa è diventato il cantore.


AVVERTENZA

Per le notizie riguardanti la figura e la vita di Giuseppe Zanon l’autore ha fatto ricorso ai ricordi diretti ed agli scritti personali stesi per altre occasioni. Ha inoltre attinto alle testimonianze dei familiari e di numerose altre persone che lo conoscevano, oppure disponevano di notizie utili per la ricostruzione degli anni dell’infanzia e della giovinezza.
Tutte queste persone meriterebbero di essere menzionate individualmente, ma l’elenco risulterebbe lungo con il rischio concreto di incresciose dimenticanze.
Ad esse, nella fiducia che sapranno comprendere le ragioni della mancata citazione nominale, si porge il più vivo ringraziamento per la preziosa collaborazione.

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